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Viaggio trasversale in una terra misconosciuta

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Tra presente e passato

La seta: un meraviglioso viaggio alla scoperta delle nostre radici

Siamo noi, oggi i custodi della memoria del nostro lontano passato e a noi va il compito di veicolare i valori autentici e puri che animavano quelle pratiche ancestrali così radicate nel tessuto economico e sociale, fino a divenire parte importante della vita quotidiana di intere comunità. Come l’arte della seta che, con la sua filiera, dalla gelsi bachicoltura, alla trattura, fino ad arrivare alla tessitura, segnò per secoli l’ordinario percorso di vita dei calabresi, trovando in Catanzaro quel punto di massimo sviluppo in un determinato periodo storico.

Come si può gettare nell’oblio qualcosa di così prezioso come la memoria di ciò che eravamo?

Ecco perché in questi giorni, fino alla chiusura del corrente anno scolastico, nel catanzarese si è deciso di unire le forze e rendere i giovani partecipi di questi antichi saperi. Si tratta del progetto didattico “Baco da seta”, che da anni ormai si svolge all’interno della Cooperativa “Nido di seta” di San Floro e che quest’anno si è   si è arricchito grazie alla mia collaborazione in quanto esperta dell’arte serica a Catanzaro, e autrice del saggio “La seta a Catanzaro e Lione” e il Mudas (Museo Diocesano di Arte Sacra) di Catanzaro. L’intento è quello di diffondere la conoscenza della storia locale e, nello specifico dell’antica arte della seta, sottolineando l’immenso valore che questa attività ebbe per Catanzaro e per il suo hinterland soprattutto nel periodo compreso tra il 1300 e il 1700 circa, quando essa costituì la principale fonte di benessere economico per l’intera area.  

Grazie alla squisita manifattura dei suoi tessuti in seta, la città dei tre colli divenne rinomata in tutta Europa, guadagnandosi l’appellativo di “capitale europea della seta”.

Quest’anno, i ragazzi  che hanno scelto di partecipare al meraviglioso viaggio alla riscoperta di questo eccezionale passato, sono circa un migliaio e si conta di coinvolgerne almeno altrettanti fino alla chiusura di questo anno scolastico. Straordinario è l’entusiasmo con cui studenti e insegnanti si approcciano alla conoscenza dei vari aspetti dell’attività serica: dall’allevamento dei bachi, alla trattura, passando per la storia del legame tra Catanzaro e quest’arte nobile e antica e i meccanismi della tessitura.

Il progetto didattico, che si propone di coinvolgere i partecipanti, rendendoli protagonisti di un’esperienza unica e non solo semplici osservatori, è pensato in modo da riproporre simbolicamente ai visitatori lo stesso percorso che la seta svolgeva in passato.

Si parte dall’hinterland, quindi da San Floro dove oggi, proprio come accadeva in passato, si produce la seta greggia e si coltiva il gelso. Qui, con la preziosa guida di Domenico Vivino, Giovanna Bagnato e Miriam Pugliese, i ragazzi visitano il suggestivo Museo didattico della seta, dove sono custoditi vari cimeli dell’antica arte serica, alcuni preziosi manufatti e dove è presente anche la nuova sezione “Seta dal mondo”. Sempre all’interno della Cooperativa, in una suggestiva cornice rurale, si svolge la visita all’immenso gelseto, all’allevamento dei bachi e si scopre come avviene il magico processo della trattura della seta. Dopo pranzo il percorso prosegue alla volta della “città della seta”, ovvero il luogo dove un tempo convergeva il prezioso filato per essere tessuto nelle numerose filande cittadine.

Qui io illustro ai ragazzi il profondo legame tra Catanzaro e la seta, conducendoli alla scoperta di alcuni dei numerosi luoghi della città, che rivelano i segnali di questo rapporto ancestrale. Passando dal rione Grecìa e dai vicoli Gelso Bianco, alla Giudecca, al Vico delle Onde, al quartiere Filanda, in città sono molti i toponimi che raccontano la storia della “nobil arte”, molti sono quei segni che, nonostante l’incuria, non sono stati ancora cancellati e sono ancora prova tangibile della grandezza di una città che sa destare grande fascino e sa stupire i suoi visitatori.

L’ultima tappa del viaggio è il Mudas, dove l’esperta Antonella Rotundo, guida gli studenti alla conoscenza dei meccanismi della tessitura, illustrandoli mediante l’uso di un piccolo telaio da tavolo e poi rendendo i piccoli visitatori parte attiva degli stessi, con un originalissimo laboratorio, il “telaio umano”, che sta riscuotendo un enorme successo non solo presso gli studenti, ma anche presso le loro insegnanti. Infine, i piccoli visitatori vengono sapientemente introdotti alla scoperta del “prodotto finito”, ovvero i meravigliosi manufatti di grande pregio custoditi all’interno della struttura, testimonianze tangibili del profondo legame tra l’arte serica e il sistema clericale, non solo nei termini meramente artistici, ma anche storico- antropologici.

Oggi, nell’era della globalizzazione, è indispensabile ritrovare le nostre radici e acquisire la consapevolezza della nostra identità storico- culturale. Poi c’è la contaminazione, se vogliamo, con quello che di più buono le altre culture sanno offrire.

Angela Rubino

Esempi della Pasqua in Calabria tra suggestione e mistero

 

Volgendo lo sguardo ai millenni passati, non si può negare che la Calabria sia terra di misticismo, animata da un forte senso di religiosità. I numerosi movimenti monastici che vi si svilupparono, le figure di Santi ed intellettuali che vi si avvicendarono e la presenza di documenti storici di altissimo valore come il Codex Purpureus Rossanensis sono solo alcuni dei segni che denotano questa importante caratteristica della regione calabra che, come ho già sottolineato,  non si è limitata ad essere soltanto una terra di transito tra oriente ed occidente, ma ha fatto da mediatrice ed ha saputo tradurre in sintesi gli elementi della civiltà greco-orientale e di quella latino-occidentale.

Questo forte senso di religiosità è diventato parte integrante della cultura dei calabresi, fino ad influenzarne quasi tutti gli ambiti e si manifesta prepotentemente in occasione di alcune ricorrenze sulle quali in Calabria sembra avere poca presa persino il richiamo ai dettami del consumismo sfrenato. Una di queste è senza dubbio la Pasqua.

In occasione di questa festività religiosa, infatti, si attivano una serie di rituali che irrompono nella quotidianità, modificandola. Cambia il modo di nutrirsi (al Venerdì Santo non si mangia la carne), si preparano dolci tipici da offrire e consumare insieme ad amici e parenti nel giorno di Pasqua, si è indaffarati a preparare il grano da mettere in esposizione la notte del Giovedì Santo in occasione dei Sepolcri. C’è poi da sottolineare lo spirito di collaborazione e di vicinanza tra membri di una stessa comunità che si sviluppa in vista delle numerose rappresentazioni religiose che rievocano la passione di Cristo e la sua resurrezione.

Tali rappresentazioni sono numerose e in alcuni casi possiedono dei tratti davvero unici, affondando le proprie radici nelle culture di quei popoli che dominarono in passato la terra di Calabria.

Il momento della loro realizzazione è magico: sacro e profano sembrano mescolarsi e il primo prende il sopravvento, spargendo i semi di un’intima riflessione che prescinde dal credo religioso e si radica nel campo della meditazione su tematiche universali come il dolore, il sacrificio e l’amore per il prossimo. I segni della cristianità irrompono per le strade e le conversazioni sul quotidiano lasciano spazio al silenzio della meditazione sull’estremo sacrificio di Cristo: questa è la magia di una Calabria che sa fermarsi a riflettere nel pio silenzio dell’adorazione del Signore. Un credo sincero e profondamente sentito alberga nell’animo di questa gente e tutto ciò diventa evidente se si considera il profondo senso di lutto e le lacrime che accompagnano l’evocazione della cattura e crocefissione dei Gesù oppure la scelta di auto flagellarsi per sentirsi più vicini alla sua passione.

In questo articolo riporterò solo alcuni esempi delle manifestazioni religiose pasquali in Calabria. Ce ne sono davvero tante e sono allo stesso tempo simili e fortemente diverse tra di loro.

A Catanzaro, capoluogo di regione e terra dalle antiche origini bizantine, il sostrato greco si manifesta attraverso la denominazione stessa della celebrazione detta “Naca” (dal greco “naché”: “culla”, con riferimento al giaciglio nel quale è adagiato il corpo di Gesù). Essa si svolge il Venerdì Santo e la processione si snoda per le vie del centro storico cittadino, secondo un ordine che vede sfilare per primi gli stendardi, i gonfaloni e le croci di penitenza delle Confraternite cittadine. Gli ordini religiosi seguono le croci, poi la Naca, a cui fa seguito la statua della Madonna addolorata e per finire i fedeli. Il richiamo agli antichi fasti dell’arte serica catanzarese, vuole che la culla dove giace il corpo di Gesù sia adornata di damaschi e seta e circondata da fiori; ai suoi estremi ci sono degli angeli, costruiti in carta pesta, con in mano i simboli della Passione. Tutto l’insieme è dominato da una grande croce illuminata situata alle sue spalle. La visione della culla desta sempre grande emozione nel pubblico ed è comune che le donne anziane non riescano a trattenere le lacrime di commozione al suo passaggio.

“Naca” è chiamata anche la processione del Venerdì Santo messa in scena a Davoli, un centro della costa ionica catanzarese, dove la celebrazione, avvolta dalla suggestione dell’atmosfera notturna, parte alle ore 22.00. Il rituale, che affonda le sue radici nel XV secolo, vuole che la statua di Gesù morto venga condotta per le vie del paese circondata da abeti illuminati da numerose lanterne colorate. L’atmosfera è molto suggestiva e molto toccante e anche l’atteggiamento di grande trasporto con cui viene vissuto l’evento, fin dalla sua preparazione.

Il processo di realizzazione dei piccoli lampioni che andranno ad addobbare gli abeti inizia mesi prima dell’evento e viene curato dai ragazzi del luogo, che s’impegnano affondo in quest’attività, animati da un forte sentimento di religiosità.

Il senso della riflessione sul mistero della vita e del dolore, stimolato dalle celebrazioni come quelle di Catanzaro e Davoli, lascia il posto alla suggestione più forte e più cruda in rievocazioni come quelle che si svolgono a Badolato, cittadina  della costa ionica catanzarese.

Qui la Pasqua viene vissuta con grande trasporto ed è caratterizzata dalla celebrazione di due eventi. Uno è la Processione dei misteri dolorosi, caratterizzata soprattutto dalla presenza dei “Disciplinari”, un gruppo di circa settanta figuranti vestiti di bianco, con corone di spine in testa e cinti da funi, che scelgono di partecipare alla processione, auto flagellandosi le spalle con delle fruste di metallo lunghe circa 40 centimetri (discipline). Si tratta di un antico rituale che queste persone scelgono di svolgere per sentirsi più vicine al dolore e alla passione di Gesù. Essi rappresentano i penitenti e, durante la processione, non possono essere riconosciuti da nessuno, all’infuori del loro responsabile.

Quella dei Disciplinari è una delle forme penitenziali diffuse nelle regioni meridionali, a partire dal XV secolo, dalle “Confraternite dei Disciplinati” e rappresenta uno dei tratti caratteristici di Badolato e dei suoi abitanti, presso i quali, da secoli, abita un intimo senso di religiosità, vissuto con un trasporto davvero unico e suggestivo.

L’altro evento messo in scena a Badolato è “A Cumprunta” , ovvero l’incontro tra Maria , profondamente addolorata dalla perdita del suo unico figlio, e Gesù risorto.

L’evento viene messo in scena il giorno di Pasqua e il compito di curarne l’organizzazione viene da sempre affidato ai frati della Chiesa di San Domenico, antico monastero risalente al XVII secolo.

Un mantello nero, simbolo di dolore, contraddistingue i frati domenicani, che portano la statua della Madonna, anch’essa vestita di nero. Ai confratelli di Santa Caterina viene invece affidata la statua di Gesù.

Molto emozionante il momento della corsa in cui i due gruppi religiosi si lanciano per favorire l’incontro tra la Madre e il Figlio risorto, dopo aver compiuto dei rituali legati alla simbologia dell’evento. Durante questo suggestivo momento, la Madonna perde il suo abito nero, al quale si sostituisce una veste bianca, simbolo della resurrezione di Cristo.

Occorre ribadire che il fascino delle celebrazioni pasquali in Calabria è davvero unico e va ben oltre il mio racconto anche per il numero degli eventi, tra i quali cito soltanto il “Jovi Santu” di Mendicino, straordinaria rievocazione della passione di Cristo, curata nei minimi dettagli e il sanguinoso rito dei “Vattienti” di Nocera Terinese.

Tutti esempi di una cultura fatta di passione e misticismo che trova espressione in questi rituali, a tratti, intrisi di mistero.

Angela Rubino

 

 

 

 

Il genio di Franceso Jerace e il dramma di una Calabria che non sa riconoscerlo

È normalissimo oltre che doveroso organizzare delle iniziative culturali volte a mettere in luce il genio di artisti ed intellettuali. È esattamente quello che ho pensato quando mi hanno contattata da Polistena, cittadina che diede i natali al famoso scultore e pittore calabrese Francesco Jerace, per parlare del noto e celebrato artista insieme ad altri illustri relatori. Cosa che ho fatto con estremo piacere, onorata di sedere a quel tavolo, da dove si levavano, fiere, delle voci che celebravano uno dei tesori della nostra Calabria.

Il merito di aver organizzato in modo eccellente l’evento, che si è svolto sabato 13 febbraio nell’aula magna dell’Istituto Tecnico Industriale di Polistena, è della Pro Loco, nelle persone del presidente, Luigi Ciardullo; del consigliere, Pietro Paolo Cullari, che si sono avvalsi della preziosa collaborazione della storica dell’arte Paola Suppa. La serata, che si è potuta realizzare anche grazie al sostegno della Provincia di Reggio Calabria e dell’Unpli, presieduta da Massimo Cogliandro, ha visto intervenire, oltre che me e la storica dell’arte Paola Suppa, anche lo storico e critico d’arte Gianluca Covelli e il fotografo Silvio Russino, giovane e talentuoso autore della mostra dal titolo “Sguardi su Francesco Jerace” , esposta in modo permanente presso il Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore a Napoli.

Come tutte le volte che sono chiamata a parlare in pubblico, l’emozione era tanta, ma non abbastanza da non farmi intuire che tutti noi eravamo lì, non solo per celebrare le opere e la carriera artistica di uno scultore geniale a cui Polistena ha dato i natali, ma per convincere il pubblico e della sua grandezza.

Ebbene si, se un artista nasce in Calabria e poi gira il mondo, raccogliendo consensi e conferme del suo prestigio, sarà il mondo a rendergliene merito, non la sua terra natia, non i suoi conterranei, per i quali, automaticamente i tesori e le meraviglie si trovano fuori dai confini del “tacco dello stivale”.

Questo atteggiamento non è certo una novità. Tuttavia, ogni volta che lo percepisco rimango sbalordita, quasi incredula. Mi è successo anche in questa occasione, forse perché ero convinta (chissà perché mai) di trovare un pubblico “innamorato” a priori di Francesco Jerace, un figlio di Polistena ricoperto di onori in tutto il mondo per il suo genio artistico. Ero persino timorosa di commettere degli errori e delle dimenticanze che il pubblico avrebbe notato, data la profonda conoscenza dell’argomento.

Ebbene, non era affatto così. A Polistena, Jerace è sicuramente noto, ma non c’è la profonda percezione del suo genio, se non da parte di un gruppo di “illuminati”, di cui fanno parte la Pro Loco e il suo entourage e da cui resterebbe esclusa anche l’amministrazione comunale. Lo scarso interesse del Comune di Polistena per la figura di Francesco Jerace è emerso anche dagli interventi di un discendente dello scultore, animato da un forte rimpianto.

Tutto questo ha dell’incredibile! Pensate, è come se Firenze non riconoscesse i suoi meriti a Dante Alighieri!

Il paragone non è un azzardo. Infatti quando parliamo di Jerace, ci riferiamo ad uno degli artisti più noti e celebrati della fine del secolo decimono e del primo trentennio del successivo. Un artista che seppe elaborare una linea compositiva e stilistica dai tratti originalissimi, mescolando gli echi della scultura classica e il realismo appreso a Napoli, in un rapporto di grande equilibrio.

Non fu di certo un caso se all’esposizione nazionale di Torino, nel 1880, la sua “Victa” vinse un premio di 3000 lire e l’immediata prenotazione di numerose repliche. E non fu sicuramente un colpo di fortuna l’eminente riconoscimento con medaglia d’oro conferitogli a Melbourne nel 1880.

Nel 1891, poi per il nostro conterraneo, giungeva l’invito a far parte della commissione permanente di Belle Arti del ministero della Pubblica Istruzione, un episodio che testimoniava il pieno riconoscimento del prestigio dell’artista. Infine sottolineo il fatto che la Biennale di Venezia, nel 1909, dedicò a Jerace una sala personale nella quale l’artista calabrese espose quindici sculture e sei fra dipinti e disegni.

Per fortuna, gli addetti ai lavori conoscono bene la valenza del genio artistico di Jerace, come hanno dimostrato gli interventi di Covelli e Suppa. Quindi il nome dello scultore si fa strada negli ambienti accademici, divenendo oggetto di studio e di approfondimenti critici. E per fortuna si va anche oltre, visto che le caratteristiche del suo genio creativo, molto attento ai particolari, hanno conquistato Silvio Russino, tanto da far ricadere la sua scelta proprio su Jerace, nella realizzazione del suo reportage. Un lavoro che emoziona e stupisce, per la tecnica innovativa impiegata e anche perché trasmette tutta l’ammirazione del fotografo verso lo scultore.

Nel 1909 Jerace scriveva: « Patisco d’amor patrio, soffro di sentimentalità per il glorioso nostro passato, mi cruccio dell’abbandono in cui siamo caduti e tenuti… e specialmente cerco di far apparire nobile, grande e bella la nostra Calabria, anche quando è giustamente accusata».

E come potremmo non accusare noi stessi di non saper riconoscere il bello da cui siamo circondati e a cui non sappiamo dare valore.

Angela Rubino

“Nido di seta”, quando la crescita della Calabria passa dalle sue tradizioni millenarie

Un legame profondo, quello tra Catanzaro e l’arte della lavorazione della seta, il cui pensiero, fino a qualche tempo fa, sembrava ricondurci ad un passato lontano, ad una dimensione legata ad un’antica tradizione che nulla ha a che fare con l’epoca odierna. Oggi qualcosa è cambiato.

Se è vero che nel cuore della città dei Tre Colli diventano sempre più rari e nascosti i segni più tangibili del glorioso passato legato alla “nobil arte”, al contrario nell’hinterland si muove qualcosa e si pensa ad un progetto dai tratti ambiziosi, ma non utopistici, che possa favorire la tutela e la valorizzazione delle antiche tradizioni legate all’attività della gelsi bachicoltura, trasformandole in un vero e proprio mestiere.

A San Floro, piccolo borgo collinare del catanzarese, importante centro di produzione della seta greggia in passato, un gruppo di giovani ha dato vita alla cooperativa agricola “Nido di seta”.

Il progetto scaturisce da un’iniziativa nata nel 1998, quando il Comune di San Floro, nella persona dell’allora sindaco Florino Vivino, ha voluto riscoprire quest’antica tradizione, avviando un progetto sperimentale che ha avuto una vasta eco a livello regionale, nazionale ed internazionale. In tale contesto furono piantate circa 3.500 piante di gelso di varietà Kocusò, (il baco si nutre solo ed esclusivamente di foglie di gelso). Oggi la cooperativa “Nido di Seta” ha deciso di riabilitare questo progetto, facendo della gelsibachicoltura la sua attività principale. Ad essa si affiancano la tintura con coloranti naturali, la creazione di tessuti semplici e la preparazione di gustose marmellate di more di gelso.

«Pensiamo sia di vitale importanza la divulgazione di alcuni valori come la tutela del paesaggio e dell’ambiente, al fine di promuovere lo sviluppo del territorio» ha affermato Domenico Vivino, fondatore di “Nido di seta” insieme a Miriam Pugliese e Giovanna Bagnato.

«Le nostre parole chiave sono ritorno alla terra, ai suoi frutti, ai suoi valori, alle tradizioni, alla cultura del territorio. Quest’ultima – prosegue Domenico – intesa non come bandiera egemonica, ma come una risorsa, si da tutelare, ma anche da condividere e miscelare per allungare la nostra “profondità di campo”. I giovani e la scuola, di ogni ordine e grado, sono i nostri primi interlocutori, perché solo attraverso la cultura, sulle ali della giovinezza, può partire il riscatto della nostra Calabria».

Tra le attività proposte dalla cooperativa ai visitatori ci sono dei percorsi guidati alla riscoperta delle varietà di piante della macchia mediterranea, tra cui ovviamente il gelso.

È possibile, inoltre, toccare con mano le diverse fasi di creazione della seta, partendo dall’osservazione dei bachi, per arrivare alla trattura, ovvero il processo mediante il quale il filo di seta viene tratto dal bozzolo.

Infine merita un cenno il Museo didattico della seta, dove è possibile, tra l’altro, ammirare diversi cimeli della storia dell’arte serica, come antichi manufatti e vecchi telai.

Per quanto tutto questo sembri già abbastanza, non lo è. Infatti i tre ragazzi seguono un percorso di crescita continua, che li porta a confrontarsi con realtà nazionali,  internazionali e non solo. Di recente, infatti, Miriam e Domenico si sono recati nel sud-est asiatico, ad arricchire le proprie conoscenze nel settore serico mediante il confronto con le maestranze thailandesi. Un viaggio tra tradizione e innovazione, a diretto contatto con popolazioni che da millenni svolgono le attività legate alla lavorazione della seta. Usi e costumi lontani e diversi da quelli delle civiltà occidentali e tradizioni millenarie, che sopravvivono come parte integrante del tessuto sociale ed economico, si sono schiusi agli occhi dei due giovani mentre attraversavano l’entroterra del sud-est della Thailandia, passando per i villaggi di Kapcho, Surin, Khonkhaen, principali centri serici del paese.

Quest’ultima cittadina è anche la sede di un importante festival internazionale della seta, con espositori provenienti da tutta l’Asia. Un’occasione che Miriam e Domenico non potevano perdere. Così anche la seta del piccolo borgo catanzarese ha fatto parte della prestigiosa esposizione.

Un’esperienza fatta di scambio di saperi e destinata a proseguire mediante un gemellaggio tra “Nido di seta” e il Centro Di Bachicoltura di Khonkhaen.

Anche il Museo Didattico della Seta, gestito dalla cooperativa, sarà il riflesso di questo nuovo percorso, con una sezione interamente dedicata alla seta nel mondo, che si arricchirà con costumi e strumenti tipici e anche di una mostra fotografica e multimediale sul viaggio in Thailandia.

Il cammino di confronto e collaborazione avviene anche nei confini regionali. Dalla collaborazione con la bottega artigiana della ceramica squillacese “Deco Art”, nasce infatti la linea di gioielli “Nico”, che unisce l’arte della ceramica a marchio DOP di Squillace con l’antica tradizione della seta.

Con il contributo dell’artista italo-argentina AlchiMia, nasce poi la combinazione dell’originale tecnica giapponese di cottura della ceramica  detta Raku, e del prezioso filato serico, che ha portato alla creazione della linea di gioielli detta Siraku.

Infine la valorizzazione e la promozione del territorio, con il progetto didattico “Per Filo e per Segno”, nato grazie alla collaborazione della bottega “Deco Art” e del Parco eco-esperenziale Orme nel Parco. Un’iniziativa che si propone di far conoscere la storia, le attività della millenaria cultura calabra e le straordinarie risorse paesaggistiche della regione agli allievi delle scuole del sud Italia, con un itinerario di tre giorni che li porterà a vivere in prima persona delle esperienze uniche nelle realtà di riferimento.

“Nido di seta”, insieme ad altre realtà che stanno nascendo all’insegna della valorizzazione di usi, costumi e risorse del territorio e della loro trasformazione in valore, è il simbolo della crescita di una nuova Calabria, che vuole riprendere in mano il suo futuro, infrangendo schemi e cliché che per secoli hanno imprigionato le menti dei meridionali.

Angela Rubino

 

 

 

“Animas, nido di seta”, quando l’arte antica diviene simbolo di dialogo tra presente e passato e tra anime affini

Il passato come prezioso emblema di una vita che, nel suo mutare diviene qualcos’altro rispetto alle origini, ma che non può prescindere da esse. In sintesi, è questa la mia idea della storia e di tutto quello che ad essa si lega, come le tradizioni, gli usi, i costumi.

Le origini sono quel qualcosa da cui tutto ha inizio, quel qualcosa che può spiegare il perché di tutto ciò che, nei millenni, è stato reiterato più e più volte, fino a divenire parte integrante della vita di intere comunità. Dunque il passato è il fondamento della nostra esistenza e se non si cerca di conoscerlo e comprenderlo, si rischia di vivere senza la piena consapevolezza del proprio presente, come se il senso profondo di ciò che ci circonda non esistesse e tutto non avesse un senso ben preciso.

Passato e presente, dunque, sono due dimensioni che devono coesistere e mescolarsi perché ci sia il giusto equilibrio dentro e fuori di noi.

Questo equilibrio, insieme al fascino dei rituali antichi del mondo femminile, rivive nell’opera “Animas, Nido di Seta”, dell’artista sarda Jole Serreli, un’installazione in concorso alla VII edizione del Premio Internazionale Limen, nella sezione “Giovani artisti italiani e contemporanei”, curata da Lara Caccia.

La mostra, ospitata all’interno del suggestivo Complesso Valentianum, sede della Camera di Commercio di Vibo Valentia, si è aperta lo scorso 19 dicembre e si protrarrà fino al 14 febbraio 2016.

Volontà dell’artista è stata quella di creare la sua installazione con dei filati che ricordassero le tradizioni del luogo. La scelta è stata inevitabilmente la seta, la cui lavorazione è un retaggio della dominazione bizantina.

La diffusione di quest’arte in Calabria risale al VI secolo e da subito essa divenne una delle attività principali per l’economia della regione, giungendo ad alti livelli di qualità.

Tra le città calabresi, Catanzaro si distinse per la straordinaria pregevolezza dei tessuti prodotti. Una caratteristica che le procurò fama e gloria in tutta Europa.

Proprio dall’hinterland di Catanzaro, più precisamente da San Floro, giunge il prezioso filato di cui si compone l’opera della Serreli. Così come l’artista ha coniugato nella sua installazione il linguaggio rappresentativo dell’arte contemporanea e quello legato ai tratti salienti del passato, a San Floro si realizza la mescolanza tra presente e passato, mediante la scelta coraggiosa di tre giovani che hanno scelto di ritornare ai valori delle tradizioni. “Nido di Seta” è la Cooperativa Agricola creata da Domenico Vivino, Miriam Pugliese e Giovanna Bagnato, che hanno ripreso la filiera della seta, dalla gelsi bachicoltura alla creazione e tintura dei tessuti.

Un connubio perfetto quindi, tra anime affini che riconoscono nei riti ancestrali del passato, una realtà preziosa, da celebrare ed omaggiare. Anime che vedono nel ritorno al passato un valore e non uno sterile rimpianto; una spinta propulsiva al cambiamento che si attua con piena coscienza di sé e della comunità a cui si appartiene, non un’immobile rappresentazione di ciò che era.

Jole Serreli è un’artista profondamente legata al mondo delle origini, che da lei viene esplorato e mutato nella misura in cui la sua ispirazione e la sua tecnica artistica lo richiedono. L’opera “Animas, nido di seta” si nutre di un linguaggio nuovo, la cui elaborazione nasce dal profondo legame con un’arte millenaria.

Il progetto “Nido di Seta” nasce dall’intimo sentimento di appartenenza alla terra di Calabria e diviene la spinta al cambiamento, l’esempio di uno sviluppo possibile a partire dalle attività profondamente legate all’identità del territorio.

In conclusione, ciò che siamo è frutto di un percorso pregresso e per divenire davvero consapevoli del nostro presente e per attuare un cambiamento, è necessario conoscere questo tratto di un viaggio che magari non abbiamo compiuto personalmente, ma che è comunque parte di noi.

 

Angela Rubino   

Tommaso Campanella, dalla storia l’esempio di un calabrese che non ha mai mollato

La scelta di aprire un blog sulla Calabria, mi sta regalando tanti momenti di scoperta e riflessione su questa nostra terra che molti vogliono fare apparire ormai inesorabilmente in declino. Una realtà che io non ritrovo però né attorno a me, né nelle pagine della storia che spesso rileggo.

Per carità, non che i problemi non ci siano, anzi, non ce li facciamo mancare. Ma forse sono proprio questi problemi, che la crisi ha acuito ancora di più, a fare leva sul senso d’orgoglio e sulla voglia di rivalsa di tutti quei giovani che non si arrendono e hanno deciso di rimanere in Calabria per far fruttare le enormi potenzialità di questo territorio. Ce ne sono tanti e spesso sono quelli che hanno vissuto all’estero e hanno deciso di tornare, perché pienamente consci del fatto che la loro terra natia non ha nulla da invidiare ad altri posti e può essere il luogo ideale dove realizzare un sogno.

È questa la Calabria che vedo attorno a me, nonostante tutto. E quando rileggo la storia di Tommaso Campanella, ecco che nella mia mente si crea un filo ideale che unisce il presente al passato.

Lui, il celebre intellettuale che si occupò brillantemente di filosofia, poesia, teologia e anche di magia, affascinando tutta l’Europa. Lui, nato a Stilo, figlio di un umile ciabattino povero e analfabeta che non poteva permettersi da andare a scuola ed ascoltava dalla finestra le lezioni del maestro del paese. Lui, Tommaso Campanella, rappresenta la storia di quel pezzo di Calabria che non si arrende e va contro vento sfidando la sorte.

Entrato giovanissimo nell’ordine domenicano, divenne subito insofferente della disciplina e delle forme stantie di pensiero trasmesse nei conventi calabresi, così come era intollerante verso la dominazione spagnola, contro la quale ordì una congiura.

Elaborò una propria filosofia, la cui chiave d’interpretazione è da ravvisarsi nel programma di una riforma politico-religiosa, espressa nell’opera “La città del sole”.

Fu processato per eresia e passò 27 anni in carcere. Visse insomma un’intera esistenza contro vento, senza mai aver paura di mettere in atto o esternare ciò in cui credeva.

Tommaso Campanella è uno degli esempi di quella Calabria brillante, il cui genio si diffuse in tutta Europa e stimolò la riflessione di studiosi e filosofi fino ai giorni nostri.

Un genio ribelle, animato dalla voglia di conoscenza, simbolo di una Calabria che non si piega ai limiti imposti dalla politica e nemmeno davanti a quelli rappresentati dalle regole religiose.

Un personaggio, che con la sua vita rappresenta un esempio di libertà oltre qualunque confine e che quindi tende ad infrangere il cliché che vuole i calabresi ignoranti, inermi ed asserviti al conquistatore di turno.

Ma come può un solo uomo giungere a rappresentare un popolo intero, anziché essere una mera eccezione?

È presto detto. Intanto, come scrive Pasquino Crupi «gli intellettuali calabresi hanno partecipato di continuo alla costruzione della civiltà culturale italiana ed europea. Non c’è epoca del sapere italiano che li trovi assenti».

Inoltre oggi è molto frequente leggere sui giornali di nostri conterranei che inventano qualcosa o ricoprono ruoli eccelsi in terre lontane.

E anche quelli che hanno scelto di rimanere o tornare qui non sono tutti dei fannulloni inconcludenti, ma dei giovani decisi a realizzare i loro sogni nella loro terra. Alcuni li ho già citati in questo blog e di tanti altri non ho ancora parlato. Sono tutti semi di  una terra che rinasce, di una terra stanca di rimanere assopita e che vuole tornare a brillare sulla scia delle eccellenze della sua storia, che si riallaccia ad un presente ricco di speranza.

Dunque, che la storia della Calabria e di personaggi come Tommaso Campanella ci sia da monito. Ormai non ci sono più scuse. Tutti siamo chiamati a mettere in campo i nostri saperi e contribuire alla rinascita del nostro territorio!

(Il dipinto ritratto nella foto è stato realizzato da Mike Arruzza)

Angela Rubino

Catanzaro, la sua fama di “città della seta” e il museo che non c’è

Una storia, quella della Calabria, profondamente legata all’arte della tessitura della seta, introdotta dai bizantini intorno al VI secolo e sviluppatasi nei secoli successivi, fino a raggiungere livelli d’eccellenza.

Un passato, dunque, i cui pezzi vanno conservati gelosamente come i tasselli di un preziosissimo mosaico che racchiude i tratti dell’identità storico-sociale di un intero popolo. Generalmente, sono i musei quei luoghi che fungono da contenitore della storia di una civiltà e di quegli elementi che sottolineano i tratti della sua grandezza. I musei sono quei luoghi che svelano ai visitatori l’identità di un luogo e quale identità storico-culturale può assumere la città di Catanzaro se non quella legata alla nobilissima arte della seta?

Catanzaro si distinse per la straordinaria qualità dei tessuti prodotti, che riuscirono ad imporsi nei mercati di tutta Europa, divenendo una delle merci più richieste. Centro manifatturiero d’eccellenza in Calabria e primo centro importante in Italia era, come attestano le fonti letterarie del tempo, una città ricchissima, e la sua economia si basava principalmente sull’arte della seta, che era regolata da rigidissime norme, i “Capitoli, ordinazioni e statuti dell’arte della seta in Catanzaro”, il cui rispetto, legato anche all’alta qualità dei tessuti prodotti, valse alla città dei Tre Colli la concessione del Consolato dell’arte della seta, che implicava anche numerosi privilegi fiscali e fino ad allora, era stato conferito alla sola Napoli.

Un’arte che vedeva i catanzaresi quasi tutti impegnati a vario titolo nelle attività ad essa legate: dal commercio, alla tessitura, alla tintura; passando per la gelsi bachicoltura o per l’investimento di capitali.

I secoli di maggiore espansione dell’arte della seta nell’attuale capoluogo calabrese, furono quelli che vanno dal XII al XVIII, ma in realtà la lavorazione del prezioso filato risale a molto prima.

I damaschi, i velluti, i taffetà, gli ermosini, i rasi, i lamì, i broccati erano tutte stoffe prodotte nelle filande catanzaresi, che per la loro finezza e preziosità conquistavano il gusto dei sovrani di tutta Europa. La maestria dei tessitori catanzaresi fece scuola in Francia, anche per quanto riguarda l’apporto tecnologico, grazie al telaio di Jean le Calabrais, capostipite del moderno telaio Jacquard.

Un percorso millenario, quindi a cui la città è rimasta fortemente legata fino al secolo scorso.

Oggi, purtroppo, la memoria di questi antichi fasti sembra essere quasi oscurata. Complice anche la noncuranza delle istituzioni, che non hanno saputo investire in un patrimonio dalle straordinarie potenzialità.

Dopo il racconto di cui sopra, quasi si stenta a credere che nella città europea della seta, non ci sia una struttura museale che racconti questo illustre passato, facendosi anche promotrice di iniziative culturali atte a dare impulso e valorizzare la cultura locale e magari a proiettarla in ambito internazionale, riscoprendo gli antichi percorsi della seta.

L’ultimo tentativo di creare un Museo dell’arte della seta a Catanzaro risale al 1999, anno in cui l’associazione Fidapa, nella persona dell’allora presidente Anna Cristallo Figliuzzi, aveva cercato di recuperare la memoria di questa attività, allestendo all’interno della scuola media “Mazzini” un museo dove erano esposti alcuni telai ed attrezzature necessarie per la lavorazione della seta, quali pettini, aspi, spolinatrici, una cantra da 300 rocche, una bucatrice per cartoni che serviva per eseguire e trasferire il disegno sul damasco e antichi documenti sulla lavorazione della seta.

Il museo era visitabile su prenotazione ed è stato anche cornice di varie mostre, in occasione delle quali sono stati esposti anche dei preziosi damaschi di proprietà di alcune famiglie catanzaresi.

Una realtà che avrebbe potuto costituire il punto di inizio (meglio tardi che mai) di una riscoperta e valorizzazione del patrimonio storico-culturale cittadino, se non fosse stata distrutta sul nascere!

Dopo soli quattro anni, quest’iniziativa è stata bloccata. I telai e tutto il resto sono stati rimossi perché servivano le aule. Le istituzioni non hanno ritenuto abbastanza importante il reperimento di altri locali (magari più degni) dove allestire il Museo della seta di Catanzaro ed oggi, di fatto, tale struttura non esiste. I telai giacciono chissà dove ed esempi di preziosissime manifatture sono custoditi nelle chiese cittadine e nel Museo diocesano, che nonostante abbia anche una sede staccata a Squillace, non ha spazio sufficiente per esporre tutti gli innumerevoli pezzi che possiede.

Questa è la storia di Catanzaro. Questa è la storia di una città che rischia di seppellire il suo passato glorioso, mentre nell’epoca della crisi globale, la cultura può divenire concreto fattore di sviluppo del territorio.

L’arte della lavorazione della seta, infatti, che abbraccia molti secoli di storia catanzarese, potrebbe essere il filo conduttore in una struttura museale, ubicata in uno dei palazzi storici del centro storico cittadino, che attraverso l’esposizione di oggetti, tessuti, foto d’epoca, arnesi da lavoro, ecc., racconti tutta la storia della città, mediante diverse sezioni legate ai vari aspetti della società: da quello sociale, a quello economico, passando per l’arte e l’artigianato d’eccellenza.

Vari eventi potrebbero poi ospitare anche artisti locali e di spessore internazionale, così da riscoprire quel legame con l’Europa che la seta aveva saputo creare secoli fa, in un’epoca in cui ancora si era capaci di comprendere il valore delle eccellenze!

Angela Rubino

[Versione inglese disponibile a breve]

Nelle rose di Rosetum la realizzazione di un sogno, la storia di Rosario Benedetto [English version below]

Negli occhi dolcezza e determinazione, nel cuore la grande passione per un pezzo della nostra Calabria, uno dei tanti tesori che i nostri occhi non riescono a vedere fino in fondo.

Parliamo di Rosario Benedetto, un ragazzo di Varese, che trovandosi qui in Calabria per trascorrere le vacanze estive, ha respirato la magica atmosfera di una delle perle dello Jonio cosentino, Roseto Capo Spulico, ha conosciuto la storia di questo luogo ed ha deciso di farne la base per la svolta della sua vita. Una svolta che ha il colore e la fragranza delle rose.

E così l’antica Rosetum, che nacque nel X secolo d.C. per volere del principe Roberto il Guiscardo e raggiunse il suo massimo splendore nel 1260 quando fu costruito il Castrum Petrae Roseti (il castello di Roseto), oggi vive un rinnovato splendore, legato alle sue origini più antiche.

In epoca greco-romana, infatti, questo luogo era famoso per la coltura delle rose, che venivano utilizzate per riempire i guanciali delle principesse sibarite.

Rosario, abbandonata la sua vita al nord, ha deciso di investire tutti i suoi risparmi nella realizzazione di un progetto che si chiama proprio “Rosetum” e prevede il lancio di tutta una serie di attività imprenditoriali basate sulle rose. Attorno al suo roseto, infatti, ruoterà una struttura ricettiva, caratterizzata da un percorso benessere tra le rose e dei laboratori per la trasformazione delle stesse in prodotti cosmetici e farmaceutici.

Il calore della natura che avvolge i sensi, il fascino della storia secolare di una cittadina che affonda le sue radici nella Magna Grecia, aiutano Rosario nella dura lotta contro un avversario chiamato sclerosi multipla, una patologia da cui è affetto dal 2011.

Un nemico contro il quale Rosario oggi ha saputo opporsi con armi nuove. La sua voglia di guadare oltre l’orizzonte, la grande curiosità e il coraggio di mettersi in gioco per realizzare i propri sogni, lo hanno portato a scoprire una nuova “cura” per la sua malattia: le rose e la loro storia, in un luogo incantato che guarisce l’anima prima ancora che il corpo.

Il valore dell’idea e del gesto di Rosario va oltre, perché deve essere da monito per tutti i calabresi, che vivono in una terra dalle immense ricchezze.

Ricchezze che devono diventare il punto di partenza di un nuovo percorso di riscatto, assieme alla consapevolezza e al coraggio di mettersi in gioco per realizzare i propri sogni qui al sud, qui in Calabria.

In the Rosetum roses the realization of a dream, Rosario Benedetto’s story

In his eyes sweetness and determination, in his heart the great passion for a piece of our Calabria, one of the treasures that our eyes can’t see all the way.

We are speaking about Rosario Benedetto, a boy from Varese, who came here in Calabria for summer holidays, breathed its magic atmosphere in one of the Jonio pearls, Roseto Capo Spulico and after he has known its history, he decided to make it the turning point ofi his life.

A life change that has roses color and perfume.

And so, the ancient Rosetum, which was founded in X century a.C. by prince Robert Guiscard and reached his maximum splendor in 1260 when the Castrum Petrae Roseti (Roseto castle) was built, today shines thanks to the connection with its most ancient origins.

In facts, in the Greco –Roman age, this place was famous for the roses growing, which aimed to use roses to fill Sibari princesses pillows.

Abandoned his life in Northern Italy, Rosario, decided to invest all his savings in the realization of a plan which just calls “Rosetum” and provides for some entrepreneurial activities based on roses.

Around his rose garden, in facts, a new tourist accommodation with a wellness path among roses and laboratories for transformation of roses in cosmetics and pharmaceuticals will be built.

The warmth of nature which wraps up senses, the charm of a town secular history, which starts from Magna Graecia, help Rosario with his hard struggle against an enemy called multiple sclerosis, an illness which he’s affected by since 2011.

An adversary which today Rosario has been able to fight against with new weapons. His will to look over the horizon, his great curiosity and the courage to get involved to make his dreams come true, have led him to the discovery of a new cure for his disease: roses and their story, in an enchanted place which can heal soul before body.

The worth of Rosario’s idea and actions goes beyond, because they should act as a warning for all Calabrians who live on a land with enormous richness, that must become the starting point of a new liberation path, together with acknowledgement and the courage to get involved to make dreams come true here in Southern Italy, here in Calabria.

Angela Rubino

 

“Nicò bijoux”, quando arte e tradizione si fondono [English version below]

La Calabria, fu sotto il dominio bizantino anche dopo il crollo dell’impero romano d’occidente, nel 500. Questo popolo lasciò un’eredità profonda nella nostra regione, così come nelle altre aree su cui mantenne il proprio dominio. Una delle tracce della civiltà bizantina è l’arte della seta, un’attività profondamente legata all’identità storico-culturale dei calabresi.

La Calabria fu una delle prime regioni in cui fu introdotta la lavorazione della seta nel VI secolo ed essa si sviluppò al punto da fare concorrenza alla Siria e alla capitale Costantinopoli.

Ha origini bizantine anche la lavorazione della ceramica con l’ingobbio, una particolare tecnica “decorativa” a graffio, con cui viene ornata.

Voglio mostrarvi un video che parla della magica fusione tra queste due arti che affondano le loro radici nel passato millenario della Calabria bizantina. “Nicò” è una collezione di gioielli che fonde l’eleganza della seta con la storia della ceramica e nasce dalla collaborazione tra “Nido di Seta” e Decò art. I bijoux firmati Nicò sono rigorosamente eseguiti a mano secondo un processo che va dall’allevamento dei bachi alla trattura della seta, dalla sua torcitura alla sua tintura. Le perle di ceramica sono create, dipinte e decorate a mano, una per una.
I gioielli sono acquistabili presso l’atelier del Museo della Seta di San Floro e nella bottega Decò art di Squillace. Si effettuano anche vendite on line e spedizioni in tutto il mondo.

La nascita dei gioielli Nicò è uno splendido esempio di fusione tra esperienze diverse accomunate dal filo della tradizione storica.

Un processo che potrebbe essere alla base di un cammino di valorizzazione dell’immenso patrimonio culturale di questa terra. Cammino che, accompagnato dalla presa di coscienza della collettività, deve partire dal basso.

 

 “Nicò jewels”, when art and tradition combine

Calabria was part of the byzantine kingdom also after the collapse of the roman empire. This people left a deep heritage in our region, such as in the other areas under its domination. One of the evidences of the byzantine civilization is the art of silk, an activity deeply related to the historic, cultural identity of calabrians.

Calabria was one of the first regions where silk working was introduced, in VI century and it developed enough to compete with Siria and with the capital Constantinople.

Even the ceramic working has byzantine origins and so is for engobes, a particular “decorative” scraping technique, it is adorned with.

I want to show you a video about the magic fusion between two arts wich belong to the millenarian past of byzantine Calabria.

“Nicò” is a collection of jewels that combines the silk elegance with the history of ceramic and it is born from the collaboration between “Nido di seta” and “Decò art”. Nicò jewels are handmade with a process that goes from the silk worms growing to the reeling of silk; from its twisting to the dyeing. Ceramic pearls are handmade, hand-painted and hand-decorated.

This jewels are sold in the atelier of the San Floro Silk Museums and in the Decò art shop in Squillace. They are also sold on line and can be sent all around the world.

The creation of these jewels i san amazing example of fusion among different experiences which have in common the thread of historical tradition.

This is a process that could be the basis of a route of valorization of the huge cultural heritage of this land. A way that should be accompanied by a general acknowledge and should start from the bottom up.

Angela Rubino 

 

 

 

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