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Viaggio trasversale in una terra misconosciuta

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Tra presente e passato

Riaprono le gallerie del San Giovanni, ma non dimentichiamo che la storia va cercata in fondo al tunnel

Di recente, la città di Catanzaro è stata scossa da un’ondata dilagante di passione per la storia cittadina. Protagonisti di questo processo, i cunicoli sotto all’antico maniero che un tempo dominava l’abitato.

Le gallerie sotterranee sono state aperte al pubblico, dopo aver subito degli interventi di ristrutturazione (forse un po’ eccessivi, ma la mia è una opinione da profana) e centinaia di persone provenienti non solo dalla città, ma anche dall’hinterland e da altre città della Calabria si sono precipitate a visitarle, affrontando ore di fila. Questa situazione si è protratta per giorni e le guide hanno descritto senza sosta la storia di quei luoghi e del Castello.

Vedere così tanta gente fare la fila per visitare uno dei monumenti storici della città mi ha stupita, in quanto sono abituata a fare i conti con una realtà che quasi ignora e a volte anche disprezza la propria identità storico-culturale, ritenendola spesso inferiore ad altre. Forse si cercava nelle gallerie quella magnificenza che finalmente potesse rendere Catanzaro degna del confronto con altre realtà, con le grandi città italiane citate nei nostri libri di storia.

Se è così, molti saranno rimasti delusi. Le gallerie sotterranee sono ambienti che accomunano tutti i castelli e da questo punto di vista, la città non mostra di possedere niente di così unico e magnificente.

I tratti unici della storia della città dei tre colli vanno ricercati nel suo passato attraverso lo studio delle fonti letterarie, archeologiche e anche attraverso i racconti dei più anziani, testimoni di epoche senza dubbio difficili, ma anche di antiche bellezze e stili di vita che donavano fascino e magia ad una città vittima di una costante, barbara e cieca spoliazione del suo patrimonio architettonico, storico e anche culturale. Proprio a causa di questo processo, che è andato avanti grazie all’impassibile indifferenza della maggior parte della cittadinanza, oggi la città è priva di tutta una serie di tracce tangibili che potrebbero essere simboli cardine del suo passato.

Come spesso ho scritto, la storia di Catanzaro mostra tratti di eccellenza, se si pensa agli antichi fasti della nobile arte della seta. Poi ancora stupisce ad affascina il viaggio nelle origini greco-bizantine della città e ancora la dominazione araba e poi il susseguirsi delle varie egemonie, fino a giungere all’epoca moderna. Un lungo percorso che ha visto Catanzaro distinguersi per vicissitudini locali o per il suo contributo alla storia e alle vicende italiane. Di tutto questo non c’è traccia nei libri di scuola e nemmeno per le strade della città. Diventa quindi difficile recuperare una forte consapevolezza dell’identità storico-sociale collettiva e l’orgoglio di appartenere ad una città che mediocre non lo è mai stata, ma lo è diventata grazie anche alle scelte della sua classe politica.

Fatte queste premesse, vorrei rivolgere l’attenzione alla storia del Castello di Catanzaro, un racconto che può divenire lo specchio della complessità storico-sociale del popolo della città dei tre colli.

L’autrice Modesta De Lorenzis ne traccia un profilo esauriente ed affascinante nel secondo volume della collana “Notizie su Catanzaro” dove si racconta che, con tutta probabilità, esso venne eretto nel 1060 da Roberto il Guiscardo, il quale nel prendere tale decisione, tenne conto della notevole importanza strategica «sia per effetto del sito naturalmente inespugnabile, sia per  la sua centralità rispetto alla Calabria».

La De Lorenzis però sottolinea anche che proprio per via della naturale predisposizione della città a porsi come una roccaforte difensiva, è probabile anche che i normanni, al loro arrivo, abbiano trovato in quello stesso sito un’altra zona fortificata o un altro castello che il Guiscardo fece poi ingrandire e migliorare. Questo perché la città fu fondata verso la fine dell’800, prima della venuta dei Normanni, da popolazioni di origine greco-bizantina in fuga dalle coste a causa delle scorrerie saracene. Un fatto questo che apre la via a tutta una serie di analisi e riflessioni sulla matrice greca dell’identità del popolo catanzarese, caratteristica che non si limitò al solo periodo di dominazione bizantina, visto che il processo di latinizzazione iniziato con i Normanni avvenne in modo lento e graduale.

C’è poi da considerare che «già nel 906  i Saraceni avevano preso di notte Catanzaro depredandola – scrive ancora la De Lorenzis -. Inoltre dal 922 al 937 la città era diventata centro del Principato musulmano di Calabria e i Saraceni rimasero in città, con interruzioni, fino al 985».

«E se è vero (come sembra) – si legge ancora nel volume citato – che i Saraceni si trattennero in città per circa un secolo, niente di più facile che il primo castello di Catanzaro sia stato una costruzione o un rifacimento arabo».

Addirittura, «il prof. Guglielmo Braun affermò che il nome di Catanzaro se fosse derivato da voci orientali poteva significare “piccolo castello” (Katan zoor o Catazar).

La vita del castello di Catanzaro proseguì fino al 1461, anno in cui la città fu scossa da un’aspra lotta contro il conte Antonio Centelles. Il castello divenne allora il simbolo della tirannide e della vessazione all’arroganza dei feudatari e venne distrutto a colpi di cannone. La lotta per la libertà costò cara alla città e un intero quartiere venne incendiato. Oggi esso porta il nome di rione “Case arse” e si estende proprio ai piedi del castello o di ciò che ne rimane.

Con le pietre del muro crollato i catanzaresi edificarono la chiesa di San Giovanni e parte del convento dell’Osservanza. Nei secoli successivi si cercò di evitare in tutti i modi che il castello fosse ricostruito e la città conservò lo status di Regio Demanio, dipendendo direttamente dal re, senza essere governata da alcun feudatario.

La funzione del castello divenne decorativa. Come racconta la De Lorenzis «nel 1831 esso veniva chiamato “Forte di San Giovanni” e in esso erano postati i cannoni che sparavano a salve durante le feste».

Questo fino al 1868 quando, in osservanza del piano regolatore studiato dall’Ing. Manfredi, si decise di demolire gran parte del castello per facilitare l’ingresso alla città.

Una decisione che Lenormant descrisse così: «la sparizione del castello è tanto più spiacevole quanto più si rifletta che era il solo monumento di Catanzaro ricordante il suo passato medievale».

La distruzione del castello è indicativa di un atteggiamento di totale noncuranza verso il patrimonio storico-archeologico della città, che oggi si presenta come un luogo anonimo e privo o quasi di tratti significativi del suo affascinante passato.

Un passato che va assolutamente riscoperto e valorizzato, per opporsi ad ogni squallido ed incomprensibile tentativo di cancellazione per fare spazio a strutture e atteggiamenti culturali che emergono solo per fare spazio agli interessi di ristrette élite di moderni signori.

La storia di Catanzaro è un avvincente caleidoscopio di vicissitudini le cui tracce vanno ricercate prima nei libri e poi sul territorio. Quindi non soffermiamoci soltanto ad ascoltare il clamore di eventi scenografici (a cui va pur sempre il merito di tenere viva l’attenzione verso la storia locale), ma andiamo oltre, visitiamo i musei, i siti archeologici, presenziamo agli eventi culturali e soprattutto riscopriamo l’orgoglio di appartenere ad una terra culla di arte, storia e cultura ed opponiamoci ad ulteriori tentativi di cancellazione dei resti della nostra storia.

(Immagine tratta da: https://www.mondimedievali.net/Castelli/Calabria/catanzaro/provincia.htm)

Angela Rubino

La seta e la suggestione della sua eccellenza raccontata e vissuta con un laboratorio di teatro sensoriale

Il mio meraviglioso percorso di collaborazione con la Cooperativa Nido di Seta, che a San Floro, piccolo paese dell’hinterland catanzarese, ha ripreso l’antica arte della lavorazione della seta, mediante l’intera filiera che va dalla gelsi bachicoltura alla realizzazione di preziosi manufatti tessuti e colorati con tecniche tradizionali, prosegue e matura di anno in anno. La nascita della mia associazione “CulturAttiva”, che si propone di diffondere la conoscenza della storia e della cultura locale mediante iniziative che raccontino il territorio da vari punti di vista e con diversi linguaggi, ha fatto si che anche il progetto didattico “Baco da seta”, realizzato insieme ai ragazzi di San Floro, si arricchisse di nuovi spunti per affascinare e coinvolgere sempre di più i piccoli destinatari dell’iniziativa.

Il progetto didattico “Baco da seta”, che sta per partire nella sua “edizione 2017”, nasce già alcuni anni fa ad opera della Cooperativa “Nido di seta” ed il suo fine è quello di diffondere la conoscenza della storia locale e, nello specifico, dell’antica arte della seta. Per sottolineare maggiormente l’immenso valore che questa attività ebbe per Catanzaro, soprattutto nel periodo compreso tra il 1300 e il 1700 circa, quando essa costituì la principale fonte di benessere economico per l’intero territorio, si è pensato di creare un itinerario che conducesse i ragazzi nell’antica città della seta, riproponendo simbolicamente ai visitatori lo stesso percorso che la seta svolgeva in passato. Così è nata la collaborazione con la Cooperativa rispetto a questo importante progetto.

Il punto di partenza di questo straordinario viaggio nelle nostre radici è San Floro dove oggi, proprio come accadeva in passato, si produce la seta greggia, si alleva il baco e si coltiva il gelso. Qui, con la preziosa guida di Domenico Vivino, Giovanna Bagnato e Miriam Pugliese, i ragazzi visitano il suggestivo Museo didattico della seta, per poi immergersi in una suggestiva cornice rurale, visitando l’immenso gelseto e l’allevamento dei bachi per poi scoprire come avviene il magico processo della trattura della seta. Dopo pranzo il percorso prosegue alla volta della “città della seta”, ovvero il luogo dove un tempo convergeva il prezioso filato per essere tessuto nelle numerose filande cittadine. Qui io conduco i ragazzi lungo i vicoletti angusti del cuore antico della città, raccontando loro di quando genti greche diedero vita alla città e vi portarono i loro usi e costumi, tra i quali la nobilissima arte della seta. Quest’anno il racconto verrà avvolto dal mistero in quanto, a tratti, si farà viva una donna sconosciuta che narrerà vicende della sua vita legate alla magia della seta. La sua presenza si farà sempre più incisiva, culminando nella suggestiva esperienza del laboratorio sensoriale “Dal baco alla trama”.

La grande novità di quest’anno si riallaccia, infatti, al lavoro di una grande artista, l’attrice Emanuela Bianchi, straordinaria interprete del fortunato monologo teatrale “Lamagara”. Ciò che collega il suo lavoro a quello di “CulturAttiva” e “Nido di Seta” è la volontà di raccontare la storia di una terra millenaria e misconosciuta, le cui eccellenze sono state per secoli taciute o sminuite.

Al fine di lasciare una traccia indelebile nella memoria dei ragazzi che prenderanno parte al progetto, si è pensato di proporre loro un  laboratorio di teatro interattivo e sensoriale. «L’esperienza sensoriale – spiega l’attrice – è una forma di teatro contemporaneo che prende avvio dall’idea che il gioco sia lo strumento ideale non solo per sviluppare la creatività, ma anche per garantire una modalità di apprendimento più veloce e diretta. Il percorso sensoriale si avvale dell’uso della vista, dell’udito, dell’olfatto, del tatto e del gusto per realizzare drammaturgie attive ed interattive e rendere protagonisti attivi coloro che solitamente sono considerati solo spettatori passivi».

Durante il laboratorio, dunque, i ragazzi diverranno parte attiva nelle diverse fasi della lavorazione del prezioso filato: alcuni diverranno piccoli bachi da seta, alcuni saranno contadini artigiani, altri orditori e altri ancora tramatori. «Il tessuto che essi creeranno – spiega la Bianchi – rappresenta l’insieme di relazioni tra uomo e natura e tra gli uomini della stessa comunità. Senza relazioni e senza cura delle relazioni nessun disegno può essere realizzato».

Il progetto didattico “Baco da seta” è un esempio tangibile di come lavorando insieme, ognuno con la propria professionalità, sia possibile realizzare delle iniziative fondate sulla valorizzazione della nostra storia, un immenso bacino di leggende, di eccellenze, racconti, tradizioni le cui tracce sono ancora incise nel nostro presente e la cui eco chiede solo di venire alla luce per realizzare quel tanto atteso cammino di rinascita della nostra terra.

Angela Rubino

“Orme di Bisanzio”, un affascinante viaggio alla scoperta della Catanzaro bizantina

La ricerca storica è quell’affascinante strumento che ci permette di risalire alla vita dei nostri avi e ad eventi avvenuti migliaia di anni fa, quando tutto ciò che ci circonda adesso era fortemente diverso. Spesso si preferisce guardare avanti, senza chiedersi da dove sia nato tutto ciò che siamo oggi, la nostra civiltà. Spesso ci si rinchiude nei meandri di questo presente buio e confuso, pensando che il progresso sia l’unica via per uscire dal tunnel quando magari, tutto sarebbe molto più chiaro se si volgesse lo sguardo indietro per comprendere il cammino complesso che ci ha condotti fin qui.

Catanzaro è una città che non si fa molte domande sul suo passato, è una città che guarda avanti, senza capire che sulla sua storia potrebbe basare la propria salvezza, preservandone i segni e valorizzandoli così da mostrarli con orgoglio a chi decide di farle visita. È così che elementi preziosi del suo patrimonio storico-culturale giacciono nell’oblio e spesso soccombono all’incalzare del tempo che passa oppure, trattandosi di rituali, celebrazioni e tutto ciò che attiene al campo storico-antropologico, vengono vissuti in maniera inconsapevole, automatica.

Per fortuna c’è qualcuno che emerge dalla massa, ci sono persone che pongono le proprie conoscenze, la propria caparbietà e la voglia di far luce sul nostro passato, a favore dell’intera comunità, cercando anche di stimolare quelli che da sempre sono sopraffatti dall’apatia.

La ricerca “Le orme di Bisanzio” ( La Rondine Edizioni, 2016) , dello storico Mario Saccà, si inserisce nel quadro di un rinnovato interesse verso la storia millenaria della città dei tre colli e lo fa con squisita eleganza e grande maestria. Il volume è un avvincente viaggio a ritroso nel tempo, alla ricerca delle antiche origini bizantine del capoluogo calabro, partendo dall’indagine del culto della “Bambinella”, un rito dedicato alla natività di Maria alla cui celebrazione l’autore ha assistito con curiosità all’interno della chiesa di Santa Maria de Figulis ( o dei vasai) conosciuta oggi come chiesa di Montecorvino.

La festa della Bambinella si celebra con una funzione religiosa che ha inizio alle 5 del mattino e ha il suo culmine con l’adorazione dell’icona di Maria Bambina da parte dei fedeli. Al termine della celebrazione, i credenti attendono l’alba insieme, sorseggiando del caffè preparato dalle donne del quartiere. L’alba diviene così il simbolo della nascita di Maria, ovvero il riscatto dell’uomo in Gesù Cristo.

Il percorso storico che Saccà traccia per giungere alle antiche origini del culto citato, ci apre la via ad una dimensione meravigliosa, quella di una città greca nelle sue fondamenta, nata per mano di due generali dell’esercito di Bisanzio: Cataro e Zaro. Il primo, profondamente devoto al culto della Vergine, avrebbe fondato nel quartiere Grecìa, primitivo nucleo abitativo della città, la chiesa di Santa Maria di Cataro, che nel 1986 mutò il nome in quello attuale di Santa Maria del Carmine.

La fondazione della città di Catanzaro avvenne tra l’VIII e il X secolo e fu allora che i bizantini introdussero il culto della natività della Vergine, «dando origine ad una devozione giunta a noi attraverso 1200 anni di storia, ma modificata profondamente dalla liturgia della chiesa Cattolica».

Ai tempi della sua fondazione, fino ad alcuni secoli dopo la conquista normanna, Catanzaro era una città bizantina e come tale osservava il rito della chiesa ortodossa. Un quadro molto diverso dalla situazione attuale, che tuttavia è vero in ogni suo particolare. È la ricerca storica a rivelarcelo, mediante percorsi di studio che spiegano anche particolari davvero suggestivi come il fatto che le celebrazioni legate al culto della Madonna, come quello dell’Immacolata e della Natività di Maria, si svolgono rispettivamente l’8 dicembre e l’8 settembre, perché l’8 è il numero della perfezione cosmica. Addirittura l’antica chiesetta di Montecorvino, dove si celebra il rito della Bambinella è a pianta ottagonale.

Molti sono i segni delle antiche origini greco-bizantine di Catanzaro. Particolari che vanno letti adeguatamente ed indagati con passione, tenendo conto dei mutamenti che avvennero attraverso i secoli e delle ingerenze spesso sconsiderate che avvengono ancora oggi.

Il fatto che i riti mariani fossero in passato messi in primo piano è un tratto legato alla cultura bizantina, come «l’antica simbologia che determinava l’ orientamento delle chiese secondo la direttrice ovest-est per ricordare il luogo di provenienza della fede cristiana». Caratteristica quest’ultima che apparteneva anche alla chiesa di Santa Maria de Figulis, prima delle modifiche apportate nel 1858.

Il territorio racconta quindi la sua storia, ma noi dobbiamo essere capaci cogliere i segnali di questa lunga e complessa narrazione. Per farlo serve innanzitutto la volontà, ma anche un profondo rispetto per la storia e la lungimiranza per comprendere che su di essa può fondarsi lo sviluppo della società civile.

Il buon senso non ha avuto la meglio quando, la scoperta di una Necropoli nella Valle del Corace, ci ha raccontato che forse era vera «l’ipotesi della preesistenza nel perimetro attuale del territorio comunale, di insediamenti greci o romani, tali da costituire un centro urbano organizzato». Una favola, quella di questo ritrovamento straordinario, che è finita ancor prima di cominciare e, dopo l’estrazione di numerosi reperti (circa ottanta casse, oggi conservati presso il Mueso Archeologico di Lamezia Terme) da quel sito, su di esso si è preferito edificare la sontuosa sede della giunta regionale della Calabria, simbolo della cecità e dell’arroganza di questo nostro presente.

Vicende come questa ci dicono che la parola “futuro” non è sempre sinonimo di progresso civile. Lo dimostra il fatto che i normanni, quando nel lontano 1054 conquistarono il Sud, non dimostrarono la stessa insolenza e ottusità dei nostri governanti, in quanto compresero che avrebbero potuto trarre benefici da ciò che c’era prima di loro. Fu così che «essi introdussero nel loro sistema di governo parte della cultura e dell’esperienza amministrativa dell’Impero d’Oriente, realizzando un modello di convivenza civile, improntato alla tolleranza». Dopo l’arrivo dei normanni «Latini e Bizantini convissero per alcuni secoli, dando vita a una comunità in cui ci si relazionava nel rispetto delle reciproche confessioni religiose», favorite dai conquistatori stessi.

Angela Rubino

 

 

 

Girifalco: tra follia e mistero la storia di un luogo il cui fascino va oltre la leggenda

 

Un racconto misto di follia, mistero e leggenda. Un racconto della terra di Calabria, un luogo misconosciuto che accoglie, nei meandri del suo passato millenario, la suggestione di storie che lasciano senza fiato.

Il borgo di Girifalco, Adagiato ai piedi di Monte Covello a circa 32 km dal capoluogo di regione, è il protagonista di questa breve narrazione. È un luogo che fin da piccola mi ha sempre incuriosita, perché è noto come “il paese dei pazzi”, in quanto vi era ubicato manicomio provinciale, “dove – mi raccontavano – venivano rinchiuse le persone ormai incapaci di ragionare, quelle che avevano perso per sempre il contatto con la realtà e vivevano in una dimensione oscura ed incomprensibile”.

Oggi, grazie alle nuove leggi in materia, quel luogo angusto e tenebroso non esiste più. Il vecchio manicomio è stato trasformato in ospedale psichiatrico e anche la struttura che ospita il nosocomio è stata valorizzata: trattandosi di un vecchio monastero del XVII secolo, essa è divenuta un complesso monumentale.

Nel tentativo di fare chiarezza su questo luogo e di diradare la coltre di mistero che vi aleggia intorno, mi sono messa ad indagare le sua storia.

Purtroppo però molti interrogativi sono rimasti senza una risposta completa. Infatti, pare che le fonti scritte, utili a fornire un quadro esaustivo del passato di Girifalco, siano esigue. Circa la fondazione della cittadina, esse raccontano che essa avvenne dopo la distruzione dei villaggi Toco e Caria, nell’836, da parte dei saraceni. Pare che i superstiti al massacro si fossero rifugiati in cima ad una rupe conosciuta come “Pietra dei Monaci”. Documenti più recenti, raccontano poi che Girifalco divenne Comune durante il decennio francese, dal 1806 al 1815.

Il nome e la storia di questo luogo continua ad essere legato a vicende oscure. Le fonti raccontano che proprio a Girifalco, nel 1723, venne fondata la prima loggia massonica d’Italia, detta “Fidelitas”. A questo si aggiunge il mistero legato all’etimologia del suo nome, che rappresenta ancora una questione aperta per gli studiosi.

La leggenda racconta che il nome di Girifalco è legato alla presenza di un falco che volteggiava intorno all’abitato e se si considera che in alcuni periodi dell’anno, questa zona costituisce un passaggio obbligato di questi uccelli, si potrà comprendere il perché di questa ipotesi.

È curioso inoltre che i rapaci siano presenti anche nello stemma araldico di altri centri calabresi, come  Catanzaro (l’aquila) e Gerace (lo sparviero). Per quanto riguarda la cittadina del reggino c’è di più. Considerando il fatto che il suo nome deriverebbe dal greco Hierax (sparviero, falco), qualcuno ha ipotizzato che la ricerca etimologia del nome Girifalco potrebbe aprirsi a nuove prospettive. Tommaseo, nel “Dizionario della Lingua Italiana”, ipotizza infatti che il nome della cittadina in questione potrebbe essere la ripetizione dello stesso termine in due lingue diverse: hierax e falco, proprio come nel caso di  Linguaglossa, il grosso centro dell’entroterra catanese.

Girifalco, insomma, sembra essere un crocevia di leggende tra sacro e profano. Questo perché c’è anche chi ha scomodato il “Signore delle Tenebre” in persona, ipotizzando un suo atteggiamento di sfida verso il Padre Eterno. Tutto questo sarebbe testimoniato materialmente da un monumento girifalcese ribattezzato “la fontana del diavolo”.

Il monumento in questione, sorge in piazza Vittorio Emanuele II, accanto alla chiesa seicentesca dedicata al santo patrono, San Rocco. La fontana in stile barocco fu costruita nel 1663, sotto il mandato dell’allora sindaco Carlo Pacino, per questo si chiama “Fontana Carlo Pacino”.

Essa si è guadagnata, nell’immaginario comune, la definizione di “fontana del diavolo” per varie ragioni. Innanzitutto, con al sua prorompente bellezza sembra voler sfidare le fattezze della Casa di Cristo, a cui sembra voltare le spalle. Con la costruzione del raffinato monumento sembra insomma che Lucifero abbia voluto dare dimostrazione del suo potere. A questo si aggiunga la celerità con cui è stata edificata. Si racconta che i contadini del luogo, che partivano per i campi, videro la piazza vuota all’alba e trovarono, con loro grande sorpresa, la splendida fontana al loro ritorno a sera. Essi pensarono fosse opera dell’Immondo avversario di Cristo, un’ostentazione della sua volgare arroganza.

I misteri e le leggende di Girifalco sono quelli di una terra che merita di essere scoperta e studiata. Una terra che ha ancora tanto da raccontare a turisti e studiosi che amano la sfida della ricerca e la frenesia della scoperta, ma anche ai suoi abitanti che continuano a crederla priva di valore.

Girifalco è un luogo seducente, tutto da scoprire e il suo fascino va oltre la leggenda. Noto soprattutto per la straordinaria salubrità delle sue acque oligominerali, esso è impreziosito da chiese, palazzi nobiliari, monumenti e da diversi siti archeologici, tra cui i resti di un cimitero ebraico del VII secolo.

Angela Rubino

“I Maccaturi”: quando arte, storia e folclore di Calabria affascinano ed ispirano artisti da tutto il mondo

 

L’ho chiamato “Contaminazioni” il mio contributo ad un progetto artistico coinvolgente ed emozionante, che affonda le sue radici nell’attaccamento alla terra di Calabria, ad un focolare fatto di affetti sinceri, di profumi, di atmosfere che segnano l’anima e da essa rinascono, in forma di ispirazione artistica. Il progetto si chiama “I Maccaturi” ed è stato promosso da Adele lo Feudo, pittrice e performer di origine calabra, residente a Perugia e da Gianni Termine, fotografo, anch’egli calabrese; entrambi portano la Calabria e i suoi scenari nel cuore e un bel giorno decidono di mettere in pratica ciascuno la propria arte, per creare qualcosa di unico. Il progetto consiste in una mostra e in un volume che da essa è scaturito. L’esposizione è composta da oltre 150 opere ed ha coinvolto circa 107 artisti provenienti da tutto il mondo.

L’idea è partita quando Gianni decide di donare ad Adele alcune sue foto. Lei, colta dall’ispirazione, le riproduce e le reinterpreta su dei pezzi di tessuto di seta grezza (forniti dalla Cooperativa “Nido di Seta”, che opera a San Floro e ha ripreso la filiera della gelsi bachicoltura), creando un racconto fatto di immagini, il cui epilogo è un richiamo alla speranza, legato al ricordo indelebile della propria terra e ai suoi affetti più cari.

Alla rete va il merito di aver diffuso abbondantemente la notizia di questa idea e ancora una volta Facebook diviene il mezzo attraverso il quale si crea una rete di centinaia di artisti che decidono di  aderire all’iniziativa, realizzando un proprio “maccaturo”, ognuno con la propria tecnica.

Il progetto scaturito da questo piccolo seme iniziale ha dato vita ad una mostra itinerante, che è partita da Catanzaro, dove è stata ospitata presso la deliziosa sede dell’associazione Mo.d’à e proseguirà in Calabria, toccando Cosenza e altre cittadine del comprensorio.  A fare gli onori di casa nel capoluogo la presidente Antonella Gentile, che ha curato l’organizzazione dell’evento. Durante la serata, la storia dei due artisti ideatori dell’iniziativa, introdotti dal critico d’arte Alessandra Primicerio; la lettura di una poesia dialettale; le parole di Adele e Gianni e poi l’intervento di Miriam Pugliese e Domenico Vivino, di “Nido di Seta”, che hanno eseguito la trattura del prezioso filato dal vivo, facendo rivivere un processo che per secoli ha segnato la vita dei calabresi; ha sintetizzato l’essenza della terra di Calabria, creando un magico connubio tra presente e passato.

L’eco dei profumi, delle atmosfere, delle voci, dei suoni della nostra infanzia in questa terra dell’estremo sud, rivive anche nei termini del nostro dialetto, che riportano in superficie antiche emozioni, spesso legate a chi non c’è più. Come Adele, anche io resto legata al pensiero di un grande affetto che mi lega a mia nonna, ai gesti abitudinari del suo vivere quotidiano, nel quale il “maccaturo” trovava quasi sempre una collocazione materiale, oltre che lessicale.

Il termine “maccaturo”, significa fazzoletto ed era molto utilizzato nel dialetto calabrese arcaico. Esso deriva dal catalano “mocador” ed è legato al latino “muccus” (muco). Oltre a soffiarsi il naso, esso era utilizzato come accessorio in molte occasioni, arrivando ad assumere la funzione di simbolo in varie situazioni.

Esso copriva il capo delle donne che andavano in campagna o in chiesa la domenica ed era nero quando simbolizzava lutto. Gli uomini asciugavano, con il loro maccaturo, il sudore delle dure giornate di lavoro nei campi o ne usavano uno abbastanza grande per avvolgere e contenere il pranzo da consumare durante la pausa.

Il maccaturo di colore azzurro si sventolava al porto, per salutare i propri cari che partivano per terre lontane in cerca di fortuna.

Al colore era legata la forte simbologia di un accessorio intimamente collegato al floclore della nostra terra e alle varie situazioni che scandivano i momenti di vita dei nostri avi.

Il bianco caratterizzava il momento del matrimonio, ma era anche legato ad usi casalinghi e proteggeva in caso di malattie. Poi, il rosso con tutte le sfumature di colore, fino al marrone chiaro, simbolizzava disponibilità nelle ragazze in cerca di marito. Al contrario, quelle già “impegnate” indossavano un fazzoletto di colore bianco sporco o grigio chiaro.

Il maccaturo di colore blu con le sue sfumature si usava per comunicare qualcosa o dare una risposta, mentre al verde era attribuita la simbologia della speranza.

Infine, quello di colore marrone era legato alla devozione per la Madonna del Carmine e si indossava il mercoledì, il giorno della novena e in occasione della festa del Carmine, abbinando un abito dello stesso colore.

Il progetto “I Maccaturi” ha una grande valenza non solo artistica, ma storica e antropologica. Esso ha saputo donare una connotazione artistica ad uno degli elementi chiave della storia del costume tradizionale e del folcolore calabrese, rendendolo strumento di libera espressione da parte di più di un centinaio di artisti, che, con le loro opere, hanno rivisitato un pezzo di storia della Calabria.

Inoltre va evidenziato il significato della scelta dell’artista Adele Lo Feudo, di dipingere sulla seta, tessuto preziosissimo e simbolo chiave della vita quotidiana dei calabresi, che ne fecero per alcuni periodi l’elemento principale del loro benessere economico.

La scelta inconsapevole del titolo “Contaminazioni”, per la mia opera si è rivelata quindi azzeccata. Dipinto su lino (un’altra fibra che veniva prodotta e tessuta dai contadini calabresi), con la sua mescolanza di materiali e colori, può essere visto come simbolo di questa meravigliosa commistione tra arte, storia, cultura che si esprime in chiave individuale, mettendo a confronto tecniche e anime diverse, ma affini per sensibilità.

Angela Rubino       

 

Il mio ritorno a Scilla e la scoperta di un luogo surreale che entra nel cuore

Le Metamorfosi di Ovidio e l’Odissea di Omero descrivono Scilla come una ninfa marina e raccontano che, mentre faceva il bagno nei pressi di Zancle (odierna Messina), per gelosia, venne trasformata da Venere in un orribile mostro con, al posto delle gambe, sei teste di cane che latravano e lunghe code di serpente.

Oggi, quello stesso nome indica un luogo magico, una particolarissima cittadina affacciata sul tirreno reggino sulla Costa Viola, dove ero stata qualche anno fa, in inverno, ma in maniera frettolosa. Non avendo avuto modo di visitare il posto con calma, ho deciso di tornarci, così, zaino in spalla, eccomi raggiungere questo luogo, fulcro di storia e leggenda, in una giornata di mezza estate.

La scintillante vitalità della Marina Grande, con il suo lungomare; gli impianti balneari; i ristorantini caratteristici è stata la prima cosa a coinvolgermi e poi la spiaggia, molto suggestiva e racchiusa tra due costoni rocciosi, uno dei quali sovrastato dal suggestivo Castello Ruffo e il mare limpido e di colore cangiante, dal verde, al blu intenso, al viola. Infine, al di là dell’imponente maniero, ecco aprirsi ai miei occhi un altro posto incredibile: Chianalea (Piana delle Galee, con riferimento a delle caratteristiche imbarcazioni), l’antico borgo dei pescatori. Un luogo dal fascino unico e surreale, dove le onde del mare s’infrangono davanti agli usci delle case e le viuzze anguste offrono scorci unici proprio per la vicinanza del mare. Qui non circolano le auto, le stradine sono abbellite da piante caratteristiche e vasi fioriti che ornano i balconcini delle abitazioni. Il borgo è collegato da una parte al porto e dall’altra alla SS 18. La sua caratteristica più grande è il fatto che molte case sono costruite a ridosso del mare, proprio come a Venezia. È per questo che questa deliziosa località è stata definita “la piccola Venezia del sud”.

Passeggiando per le vie di Scilla e di Chianalea, si viene avvolti da un’atmosfera di quiete, nonostante si percepisca la vitalità della stagione turistica. È come se la tranquillità del quotidiano si mescolasse straordinariamente con quell’inquietudine che caratterizza la dimensione del turista. La gente del luogo è incredibilmente ospitale, lascia la porta di casa spalancata, nonostante il via vai di sconosciuti ed è propensa al dialogo e alla conversazione e, vi dirò di più, mi è sembrata felice di darmi indicazioni.

In questa dimensione di armonia tra esseri umani, che oggi sembra quasi un miraggio, anche i visitatori diventano solidali tra loro e propensi alla conversazione.

Dopo una breve sosta in spiaggia e un bagno rinfrescante, eccomi partire alla scoperta del territorio, ansiosa di realizzare un reportage fotografico delle meraviglie che si sarebbero dischiuse ai miei occhi. Così è stato. Salendo su per le stradine anguste e tortuose della Marina Grande, eccomi al Castello Ruffo.

Ora, è doveroso inquadrare dal punto di vista storico questo incantevole territorio.

La creazione del nucleo urbano denominato quartiere San Giorgio, che sovrasta l’area costiera, ebbe origine in epoca antichissima ad opera dei marinai e pescatori che popolavano la costa e che decisero di spostarsi sulle alture. Questa decisione fu dovuta alle continue incursioni dei pirati Tirreni, che dominavano incontrastati l’area dello Stretto e utilizzavano la rupe scillese come loro roccaforte ideale. I Tirreni furono sconfitti definitivamente dai Reggini, ma fino a quel momento, vedendosi ostacolati in quella che per loro era un’attività fonte di sostentamento, i pescatori scillesi decisero di vivere sulla montagna, praticando l’agricoltura e  la caccia.

La prima fortificazione di Scilla risalirebbe al V secolo a.C., all’epoca in cui a Reggio regnava il tiranno Anassilao. Da allora, la fortezza assunse un’importanza sempre maggiore. In tarda età magnogreca, essa venne denominata Oppidum Scyllaeum e in età romana subì un potenziamento che, insieme al suo porto, la trasformò in un efficiente sistema di difesa a supporto dei nuovi dominatori del Mediterraneo.

Visitando la fortezza ed ammirando il panorama mozzafiato che si gode dall’alto, è facile comprendere la sua importanza come baluardo di difesa e postazione di controllo dei vicini mari. Funzioni militari che la fortezza svolse inevitabilmente anche a partire dal 1060, quando Reggio fu assediata dai normanni Ruggero e Roberto il Guiscardo.

Oggi, il maniero viene denominato Castello Ruffo perché, nel 1533, venne acquistato da questa importante casata, che ne fece la sua dimora baronale prima e, dopo l’ottenimento del titolo di principi, nel 1578, con opportuni restauri, lo trasformò in lussuosa residenza principesca.

Il suggestivo edificio è posto sul promontorio che divide la zona denominata Marina Grande dal grazioso borgo costiero di Chianalea e presenta una pianta irregolare con parti che risalgono ad epoche differenti. Tuttavia il complesso mantiene una configurazione abbastanza omogenea e conserva intatte le sue caratteristiche di presidio militare dotato di cortine, torrioni e feritoie.

Al suo interno l’edificio ospita il Faro della Marina Militare e un punto espositivo che informa, con il supporto di materiale fotografico e suppellettili, sulla ricchezza dei fondali marini sottostanti il castello, meta di sommozzatori ansiosi di esplorarli per godere della loro immensa bellezza.

Tutto è armonia in questo breve viaggio: il profumo del mare, gli scenari unici, le specialità gastronomiche, i sorrisi delle persone, che eccezionalmente, non sembrano stressate, ti accolgono, si soffermano ad ascoltarti, ti raccontano di sé, della loro storia, delle loro passioni. Tra queste conversazioni occasionali, non poteva mancare però il solito riferimento al furbetto di turno, che ottiene favori in cambio di sostegno politico. Storie che si riflettono nel tessuto cittadino e divengono il simbolo di un immobilismo dal quale la Calabria dovrebbe liberarsi per divenire davvero la terra dei sogni, un luogo meraviglioso per i suoi scenari e anche per la qualità della vita in ogni suo aspetto.

Angela Rubino  

 

“Lamagara”, l’ultima “strega” di Calabria svela la sua storia nella cornice del castello normanno di Squillace

 

Scoprire, in una notte di mezza estate, che la Calabria è anche la terra da cui partì la prima decisione di abolire il reato di stregoneria nel Regno delle due Sicilie, mi fa capire che non smetterò mai di restare affascinata dalla sorprendente storia di questo luogo intriso di misteri.

Dal palco del Festival “Innesti Contemporanei”, che si è svolto dal 30 luglio al primo agosto nell’affascinante cornice del castello normanno di Squillace, Emanuela Bianchi, nei panni dell’ultima “magara”, ha rivelato la storia di Cecilia Faragò, uno straordinario racconto di coraggio e di caparbietà, di quelli che hanno avuto il potere di cambiare il corso della storia. L’esempio di vita di una persona che, per difendere la propria libertà, si è opposta ad un contesto molto difficile, fatto di pregiudizi, di obbedienza cieca a regole prestabilite e di rassegnazione.

Le vicende in questione si svolsero nel ‘700, a Zagarise, il paese in provincia di Catanzaro dove Cecilia nacque e Simeri Crichi, la località dello stesso comprensorio dove la donna visse da sposata.

Un destino difficile le strappò via marito e figlio e poi l’accusa di stregoneria la gettò in un vortice di violenza ed ingiustizie dal quale riuscì, in qualche modo, ad uscire vincitrice, visto che fu la protagonista dell’ultimo processo per stregoneria del Regno delle due Sicilie.

Fu la caparbietà del giovanissimo avvocato catanzarese Giuseppe Raffaelli          a determinare il primo passo verso questa vittoria. Egli , appena ventenne, credé nell’innocenza della donna e la fece assolvere, annullando tutte le prove fittizie presentate dall’accusa. È dalla memoria difensiva scritta in sua difesa che si è appresa la storia di Cecilia Faragò e il processo fece tanto scalpore da persuadere re Ferdinando IV ad abolire il reato di “Maleficium” nel suo regno.

La storia che l’antropologa, attrice e performer catanzarese Emanuela Bianchi ha voluto raccontare, calandosi nei panni della Faragò con il monologo teatrale “Lamagara”, scritto da lei e da Emilio Suraci, mette in luce la difficile condizione in cui le donne erano costrette a vivere, condannate ad un destino di sottomissione e di obbedienza assoluta alle regole di un sistema che le poneva in una posizione di netta inferiorità rispetto all’uomo. Cecilia viveva nell’epoca dell’Inquisizione, quando chiunque intralciasse la chiesa nel suo cammino di conquista del potere o di possedimenti, veniva eliminato. Trattandosi di una donna, per di più “libera”, senza status e incline a sfidare il potere e i canoni sociali, non fu affatto difficile accusarla di essere una strega e farla incarcerare incolpandola anche di omicidio.

La storia di Cecilia Faragò ha ispirato scrittori e registi (appena qualche mese fa si sono concluse le riprese del film su questa vicenda), la Bianchi lo ha messo in scena in modo straordinariamente originale, riuscendo anche ad aggiudicarsi il premio della critica “Gaiaitalia.com” al Fringe Festival di Roma.

Nel corso del monologo, l’attrice svela al pubblico l’animo del personaggio, una donna dai sentimenti puri, che rimasta senza affetti, vuole continuare ad occuparsi della sua fattoria, nel ricordo di ciò che era la sua vita passata. Durante questo racconto, gli spettatori sono portati a conoscere anche i lati “oscuri” di questo personaggio, ovvero l’uso di erbe curative, quelle pratiche, quei rituali ancestrali e poco consueti che la gente accettava solo nella misura in cui, di nascosto, poteva trarne beneficio, ma che poi non esitava a demonizzare.

Tutte le emozioni, la sofferenza, le paure di una donna privata di tutto ciò che le era rimasto solo perché “donna”, vengono portate in scena da una magnifica Emanuela Bianchi, che sembra fare suo il personaggio, rendendolo l’emblema non solo della condizione della donna, ma del diverso in generale, di colui che ha il coraggio di pensare ed agire diversamente rispetto al contesto in cui vive. Lo spettacolo è reso ancora più suggestivo ed unico dall’introduzione dell’uso scenico degli elastici, un momento performativo che contribuisce ad esternare meglio lo stato di disagio e sofferenza interiore del personaggio.

Dal palco, lo spettacolo riesce a trasmettere, senza mai annoiare, un profondo messaggio di riflessione su ciò che, di mostruoso, il pregiudizio verso le donne e la fame di potere e di ricchezza della Chiesa ha potuto generare in passato: milioni di donne furono torturate ed uccise in nome di accuse insensate.

 

Angela Rubino  

 

 

A Catanzaro la porta e il convento di S. Agostino sono muti testimoni del passato … ma per quanto ancora?

Ripropongo ancora un altro racconto legato alle porte civiche della città di Catanzaro, firmato dallo storico Mario Saccà. Questa volta si parlerà della porta e del convento di Sant’Agostino, ma prima di immergerci nel vivo di questa storia, vorrei chiarire brevemente cosa erano e a cosa servivano le porte civiche.

Partiamo col dire che Catanzaro nasce come cittadella fortificata, ovvero come luogo capace di resistere a lunghi assedi. Era la sua posizione geografica, in primis, che le conferiva questa caratteristica e poi a questo si aggiunga la costruzione di bastioni, torri e appunto porte civiche, ovvero le porte di accesso alla città, che era anche racchiusa da una cinta muraria di circa 7 chilometri. Anche il territorio circostante era ben difeso, con un sistema di torri di avvistamento sparse per tutta l’area occupata oggi dai quartieri Sala, Santa Maria e Lido.

Le  antiche porte civiche di Catanzaro erano in tutto sei:

La Porta Marina o Granara, con tutta probabilità quella principale, in quanto consentiva di entrare in città a chi proveniva dalla costa ed era preposta soprattutto al commercio del frumento; la Porta di San Giovanni o Castellana, che sorgeva nei pressi dell’attuale Piazza Matteotti; poi c’era la Porta di Prattica (della quale parleremo in un prossimo articolo), che consentiva l’accesso in città passando per l’attuale rione Case Arse. Se si voleva entrare in città da oriente, occorreva passare per la Porta di Stratò (della quale abbiamo parlato ampliamente in un articolo precedente); la Porta del Gallinaio era utilizzata solo per favorire l’accesso del bestiame e infine c’era la Porta Silana (probabilmente quella di Sant’Agostino di cui ci accingiamo a parlare), che consentiva l’entrata in città a chi proveniva dall’altopiano della Sila (fonte Wikipedia).

Ecco il racconto di Mario Saccà:

«Alla porta di S. Agostino si perviene dopo avere superato un robusto cancello di ferro e un breve percorso fra sterpi e rovi: una barriera fra l’attualità e la storia.

Secondo Luise Gariano il suo vero  toponimo era “Portella” ; la denominazione attuale è dovuta alla presenza del convento di S. Agostino, divenuto poi sede dell’ospedale civile cittadino.

Il suo quartiere di riferimento era S.Nicola di Morano ( o delle Donne)  che si estendeva fino alla fontana e alla Torretta di Cerausto o della Marchesa. La fontana era nel giardino della contessa di Catanzaro ( v. “Catanzaro” di M. A. Teti e G. Rubino), mentre nella Torretta ( dal quale deriva il nome attuale del luogo: “a Turretta” ) alloggiava il corpo di guardia ( v. “Cronica di Catanzaro” di Gariano).

L’ antico ingresso alla città, per quanti venivano dalla parte di Siano, è ancora in piedi anche se grandi fessure della muratura ne preannunciano il prossimo crollo assieme alla piccola cappella che consentiva, a chi entrava o usciva dalla città, di sostare per riprendere fiato o raccogliersi in preghiera (sotto il suo altare fu sepolto uno dei tre martiri catanzaresi del 1823, Pascale).

I muri portanti sono privi di sostegni e difese dagli agenti atmosferici perchè manca, da anni, la copertura.

Anche qui, come un tempo nella scomparsa porta di Stratò, si notano tracce di un indefinibile dipinto murale.

Un breve ed erto percorso consentiva ai “viatori” di arrivare in città dopo avere attraversato l’alveo del torrente Musofalo (il toponimo antico era Conaci); la traccia è ancora ben visibile a chi  guarda dalla strada che conduce al vecchio ponte di Siano , luogo di leggende e tristi suicidi  per i catanzaresi delle vecchie generazioni.

È la terza delle porte di Catanzaro ancora in vita – quella Nord est –  che, malgrado l’abbandono, sembra aggrapparsi allo scoglio dove fu edificata per non scomparire ricordandoci, muta ed inascoltata testimone, di avere vissuto per tanti secoli assieme ai nostri predecessori, compiendo, per di più, un tratto di strada assieme a noi.  Fino a dove potrà farci ancora compagnia se non tendiamo una mano? Molto presto le sue pietre si confonderanno con quelle del torrente sottostante dove sarà difficile raccoglierle. Finirà “sotto il Ponte di Siano”.

Si potrebbe dare un segno di attenzione per restaurare l’ edifico, magari insieme al convento ex ospedale. Si oppongono tre fattori: l’indefinita e mai aperta per essere conclusa definizione della proprietà fra Comune ed Azienda Sanitaria, l’ assenza totale della Sopraintendenza ai Monumenti che “dorme” a Cosenza, i costi, la latitanza della Regione in fatto di politiche di recupero dei centri storici. Se non si incomincia non si può finire e la Portella potrebbe essere il primo avvio di un’operazione che dimostri uno spiraglio nell’ indifferenza generale.

I dati della porta di S Agostino sono stati rilevati, a suo tempo, dalla Sovrintendenza ai Beni Architettonici e ne fu redatta una scheda, riportata in un libro pubblicata dal Ministero competente nel 1979, ministro l’onorevole Antoniozzi, che mise in evidenza i problemi, come ho già ricordato in una nota precedente.

La proprietà risulta essere del Comune di Catanzaro, così come la porta di Stratò e le strade che portano ad entrambi gli edifici partendo dal sottostante torrente Musofalo.

È un contributo alla ricerca delle proprietà comunali dimenticate.

Accanto alla porta vi era  il convento dei frati Agostiniani, anch’esso in notevole stato di degrado.

Chi vuole entrarvi è libero di farlo a suo rischio e pericolo: porte aperte, luoghi abbandonati e quintali di carte d’archivio buttate in una stanza, disponibili per chiunque, malgrado la legislazione sugli archivi ne preveda un adeguato trattamento da parte della proprietà che dovrebbe essere, attualmente, dell’amministrazione ospedaliera.

Ma anche la Sopraintendenza ai Beni Archivistici, che soggiorna a Reggio Calabria, non ha forse potuto verificare lo stato dei fatti per valutare cosa conservare e cosa gettare!

Il caso consente di segnalare il problema contando sulla sua soluzione.

Ma che sarà dell’antico convento dove fu anche sepolto un nostro Vescovo?

Merita anch’esso qualche cenno di storia, anche perché la sua vita è associata a quella della porta della quale si è detto.

Nel 1650, su ordine di papa Innocenzo X, tutti i conventi inviarono a Roma una relazione storico-economica della propria situazione. Copia di tale relazione è conservata presso l’Archivio Generalizio degli Agostiniani a Roma e reca la data del 22 Dicembre 1649.

Vi si illustra, in attuazione dell’accennata bolla pontificia, “lo stato del Convento di S. Maria del Soccorso dell’Ordine degli Agostiniani della Provincia di Calabria”, che viene qui pubblicata per la prima volta.

Esso era “situato dentro la città di Catanzaro in un angolo sopra le mura da una parte e dall’altra dov’è si affacciava della chiesa contigua alla città, e sua abitazione in strada pubblica e frequentata; fu fondato et eretto col consenso ed autorità di monsignor Ascanio Geraldino, Vescovo della Città, nell’anno 1561 il dì 16 Ottobre sotto il pontificato di Pio IV, e la chiesa ha il nome di S. Maria del Soccorso, con cappella, organo, choro e sacrestia con mediocri addobbamenti … il chiostro quadrato, e la clausura tiene otto celle, refettorio grande, cantina, granaro, cucina-dispensa e quattro altri magazzini… et altri servizi , un giardino murato al cancello”.

Nel 1628  ospitava 5 sacerdoti, tre serventi e quattro novizi dei quali si elencano i nomi.

Il priore era un catanzarese Alessandro(?) Mannarino.

I possedimenti ed i censi esigibili costituiscono buona parte della relazione che non contiene altre particolari indicazioni. È straordinario rileggere antichi documenti in presenza dei luoghi cui si riferiscono.

Il convento e la porta esistono entrambi, quest’ultima ancora per poco : seguiranno il destino di altri beni cittadini?

Scriveva il compianto Professor Augusto Placanica che “il passato della Calabria non si mostra, perché spesso, di quel passato non è rimasto quasi nulla… è mancato alle comunità il gusto di guardare e provvedere a un domani più alto”.

Per alcuni aspetti c’è qualcosa che sopravvive a Catanzaro, è un nostro dovere ri-conoscerlo e salvarlo». (La foto è stata scattata da Anna Veraldi)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Catanzaro, le sue antiche porte e la stupidità di una società che non valorizza i segni del passato

La storia che voglio raccontare in questo articolo è legata ancora una volta alla mia città: Catanzaro.

Più volte ho ribadito come essa sia figlia di un passato millenario i cui resti sono disseminati lungo il territorio, con i suoi vicoli, i suoi monumenti, i palazzi antichi, la conformazione stessa dell’abitato; si ritrovano nelle pratiche ancestrali, che sopravvivono a fatica, spesso grazie agli anziani; nel dialetto, anch’esso sottoposto ad un continuo mutamento.

La città di Catanzaro prosegue così il suo cammino nei meandri dei tempi e delle epoche, avvolta da un’atavica routine e piegata alle contraddizioni di un mondo in continuo cambiamento, che rischia seriamente di risucchiare tutto ciò che non è saldamente e consapevolmente ancorato alle proprie radici e trasformarlo in un territorio senza identità.

Queste stesse considerazioni, le facevo nel 2013, dalle pagine del sito web Catanzaro Live, di cui ero direttore responsabile e precisamente nell’ambito di una rubrica di storia che usciva settimanalmente.

In quell’anno usciva, a firma di Mario Saccà, storico e giornalista catanzarese dalla straordinaria cultura, l’articolo che propongo qui di seguito e che narra la storia di una delle antiche porte della città, la Porta di Stratò, di cui oggi rimangono i resti insieme a quelli della Porta di Pratica, di quella di Sant’Agostino (con annesso un antico convento). Nell’articolo si parla anche delle condizioni in cui versa l’antica struttura, vittima dell’incuria di una popolazione che lascia marcire nell’oblio i segni della sua storia, se essi non sono legati ad interessi di varia natura.

È giusto sottolineare che di recente l’associazione “Catanzaro è la mia città” ha lanciato una petizione per salvare due delle porte rimaste ancora in vita.

Mario Saccà scrive : «Fra le proprietà comunali è accatastata anche la “Portella” o Porta di Stratò, i cui ultimi resti sono visibili a chi percorre, a suo rischio, il sentiero che passa sotto l’ ex edificio del Provveditorato agli Studi  in direzione Ovest. Il muro che delimita il percorso, pende verso il passante ed è attraversato da ampie fessure verticali che ne possono pregiudicare la stabilità. Inoltre un consistente getto d’ acqua che proviene, con buona probabilità, da una delle antiche fonti di Catanzaro citata da Gariani e D’ Amato passa sotto la fondazione ormai “sifonata”. Negli annali dell’ Ufficio Idrografico del Genio Civile, la sorgente è stata tenuta sotto osservazione fino a tempi recenti e la sua portata stabilita in poco più di un litro di acqua al secondo. Ora si perde e finisce nel sottostante Torrente Musofalo diventandone un piccolo affluente.

Ciò che rimane dell’ antico edificio collocato sull’ orlo dell’ altipiano, sul quale fu costruita la prima Catanzaro, protetto dagli orli a strapiombo sui torrenti che la circondavano è parzialmente visibile, molta parte della sua superficie esterna è coperta da edera ed altra vegetazione, mentre all’ interno lo spazio praticabile è pieno di piante di rovo; osservandole si possono intravedere le prospicienti colline di Siano: segno che il muro orientale della chiesetta è crollato. Mancano anche il tetto e parte dei muri perimetrali, alcuni dei quali mostrano segni di deterioramento che ne mettono in forse la stabilità. Alcuni dipinti che un tempo si mostravano all’interno della Portella sono scomparsi assieme alle pareti, di recente, ha detto un abitante del luogo, «hanno portato via anche la piccola croce collocata sul culmine dell’ ingresso».

L’ antica strada che portava al Musofalo non è più visibile: la natura si è impadronita  dello spazio e l’ha ricoperta di verde, conservandola, a differenza di quanto è accaduto alla vecchia e piccola porta della città.

La pubblicazione del Ministero dei Beni Culturali negli anni ’70 aveva già annotato che sull’ area non era stata stabilita alcuna destinazione urbanistica e che i danni del tempo si dimostravano notevoli: solo interventi  di consolidamento della roccia che sostiene l’ edificio e il suo recupero architettonico, avrebbero potuto porre rimedio al degrado. Le condizioni attuali dimostrano che il “miracolo” non si è compiuto.

Stratò è la terza ultima testimonianza della Catanzaro medievale e come le altre, se non si provvede a realizzarne il recupero, sparirà alla nostra vista, già precaria. Se si vuole sostenere ancora la definizione di “centro storico” è la cosa più urgente da fare, magari rinunciando a manifestazioni esteriori e a mercatini senza senso che non rimarranno nella cronaca e nella storia civica».

Sono ancora due le antiche porte di accesso alla città di cui esistono i resti e ne parlerò in seguito. Il tono con cui lo farò sarà quello di un’estrema indignazione per la stupidità e il pressapochismo con cui vengono considerati i preziosissimi segni di un grande passato.

Angela Rubino

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